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Spesso, per la verità troppo poco spesso, scriviamo degli articoli in occasione di stage con grandi maestri o eventi che vale la pena sottolineare.

Io oggi voglio evidenziare un evento che non è stato annunciato, che non avviene tutti i giorni, che quando avviene c’è solo per alcuni di noi. Che senz’altro viene organizzato tutti i giorni dal Maestro Federico Aquilotti.

L’evento è la sua lezione, il suo insegnamento.

Quanto vi dirò non avrà nulla di nuovo per voi allievi del Maestro Aquilotti, ma vi invito a fare un’ulteriore riflessione come ho avuto l’opportunità di fare negli ultimi giorni.


Venerdì il Maestro ci ha regalato, come è solito fare, un pezzo dell’Aikido, un pezzo della comprensione, una parte della conoscenza.

Il regalo non è facile da scartarsi in quanto i mezzi con cui viene veicolato le parole e le azioni richiedono un espressione maggiore che il verbo e gli atti non hanno.

Le parole sono però chiare non lasciano adito a dubbi. Il maestro ci ha invitati a liberarci dalla preoccupazione della posizione, del movimento, dal pensiero e dai dubbi. Non dobbiamo perseguire lo svolgimento diligente di mere tecniche, dobbiamo fare Aikido, con semplicità. Con gli stessi sentimenti di sincerità, serenità e armonia che vediamo nell’Aikido del Maestro Federico.

Queste parole ci lasciano sempre l’amaro in bocca, è facile per lui parlare di semplicità, di libertà dei movimenti. Non lo è per molti di noi.

Venerdì non ho voluto aspettare di capire, come il mio carattere mi impone ho deciso di approfondire il concetto e ho incalzato il maestro con delle domande.

Ho chiesto qual’è il segreto? so che ci vuole tempo, ma il tempo non è la soluzione ultima, non basta!

Non voglio col tempo diventare un esecutore impeccabile di tecniche.

Non è questo quello a cui aspiro.

La risposta del Maestro è stata che il “Satori”, l’illuminazione, ci giunge improvvisamente e quanto più ci impegniamo alla ricerca tanto più non la troveremo.

Le parole del Maestro mi hanno colpito, e per quanto possano sembrare scontate, mi hanno imposto ulteriori riflessioni.

Oggi voglio con voi condividerle con questo mio scritto.


I koan
“I mattoni dell’insegnamento”

Nello studio dell’Aikido spesso si pensa alle varie fasi dell’apprendimento delle tecniche come a dei mattoni.

Quando si pensa ad un mattone come strumento dell’insegnamento la nostra mente corre subito alla costruzione di un qualcosa, magari una fondamenta sicura da ergere un palazzo.

Questo ci ispira senz’altro una notazione positiva, vero? ma è proprio cosi?

Se ipotizzassi l’uso del mattone come strumento per ‘rompere’ qualcosa, la connotazione sarebbe comunemente negativa, vero?

Vista in un’altra prospettiva potrei aggiungere che la costruzione è in realtà un muro posto sulla “Via” e potrebbe in alcuni casi impedirci di percorrere la nostra ricerca.

Vediamo il perchè.

I Koan sono dei 'problemi' che si trovano spesso nei libri di aneddotica e nei libri Zen in cui sono trattati con estrema serietà.

Sono risalenti a prima del dodicesimo secolo in Cina, introdotti in seguito in Giappone.

Rappresentano degli enigmi con cui, nei secoli, si sono impegnati saggi e tutti coloro i quali volevano raggiungere attraverso il rigoroso addestramento 'la conoscenza'.

I Koan sono utilizzati comunemente nell’insegnamento delle arti e dei mestieri in Giappone, l’insegnamento dell’Aikido avendo origine comune da maestri giapponesi ne ha ereditato alcuni precetti.

Nei Koan è simbolizzato il dilemma della vita, alcuni Koan, si incontrano, e forse li avete sicuramente incontrati nel corso degli anni:

'Concepire l’applauso
di una sola mano',

'Chi è colui che cammina
verso di me?',

'Tutte le cose
convergono nell’Uno,
dove converge quest’ultimo?'.

Nei confronti dei Koan ci si può sentire impotenti, i nostri sforzi ci portano in un’impasse apparentemente senza uscita.
Ma alla fine l’Io che osserva cade e troviamo la risposta.

Daccordo, lo so, questa mia ultima frase è d’effetto ma non vi comunica molto.

Forse è il caso di spiegare chi è l’Io che osserva.

Nel corso della pratica dell’Aikido spesso ci sentiamo dire che stiamo sbagliando, il nostro braccio, la nostra gamba, il nostro corpo è in una posizione sbagliata.

Non a caso ci viene detto, “non vedi il tuo corpo? non ti vedi che sei in una posizione sbagliata?”. Ci viene detto, in estrema sintesi, che dobbiamo vedere noi stessi.

E’ difficile capirlo ora ma questo non è il fine ultimo ma il mezzo.

Nell’educazione e nella didattica giapponese vi è la formulazione sin dai primi rudimenti dell’Io che osserva, viene creata una coscienza di noi stessi che ci guarda e con il suo giudizio ci guida.

Negli anni viene poi insegnato a liberarsi di quest’ingombrate alterego, strumento didattico eccezionale può divenire un muro sulla nostra strada. Si è soliti dire che un individuo può dare il meglio di se solo quando si libera dalle limitazioni dell’Io che osserva. 

Il saggio Nangaku impiego setta anni per rispondere al quesito: 'chi è colui che cammina verso di me?'.

La sua risposta fu: 'Anche quando si afferma che qui esiste qualcosa, si omette il tutto'.

Con senso ironico potremmo dire che:'questa era proprio la risposta che ci aspettavamo da un saggio giapponese',

la risposta è più complessa della domanda!

Ma è il nostro approccio è errato, il nostro sguardo è ingannato, la soluzione non è nella risposta, ma nella domanda, ovvero nella ricerca che la domanda ci impone.

Quando si giunge finalmente alla risposta questa perde di significato non per delusione, ma perché ci si para davanti una conoscenza più alta in cui il Koan è stato solo uno strumento.

Nella pratica Zen si è soliti indicare i Koan come i mattoni con cui si picchia alla porta posta sul muro che rinchiude la natura umana 'non illuminata'.

Con il nostro battere possiamo percepire l’eco della vibrazione della nostro spirito. Ma possiamo anche abbattere la porta che ci ostacola.

Oltrepassando la porta di incanto ci accorgiamo che non stiamo entrando ma usciamo! ci si trova all’aria aperta, in un mondo di libertà, non abbiamo raggiunto l’infinito, ma acquistiamo la limpidità, la sincerità, il “Makoto”, allora facciamo coincidere mezzi e fini, sappiamo bene dosare l’energia né troppa né troppo poca.

Guardandoci la mano lasciamo cadere il mattone, non ci serve più e il significato che celava non ha più senso ormai.

Questo è il significato, il saperlo non ci da nessun vantaggio, sappiamo però quali sono gli strumenti.

Il pescatore quando pesca non pensa alla rete ma al pesce.

Quando affrontiamo un Uke non dobbiamo pensare al Jo o al Ken.

I giapponesi sono soliti dire 'tra la volontà e l’azione non ci deve essere che lo spazio di un capello'.

Non c’è pensiero, c’è volontà, c’è libertà, la stessa libertà di cui parlava il Maestro Aquilotti.

Siamo tornati alle parole da cui eravamo partiti e notiamo che non abbiamo modo di esprimere in modo diverso quello che ci insegna il Maestro.

I termini sono quelli, il significato è chiaro, le parole semplici.

 


Ai miei compagni e
al mio Maestro Federico Aquilotti

Silvio

 


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Alessandro[martedì 15 novembre 2005 ore 13:01:20]

In palestra non sono riuscito a leggerlo.... Siccome le parole dette a voce lasciano il tempo che trovano, vorrei farti i più sentiti complimenti per la tua ricerca e per le spettacolari parole che hai usato per renderci partecipi delle tue riflessioni. Tante volte ascoltiamo quello che ci viene detto senza riflettete, perdendoci il vero significato che ldelle semplici parole racchiudono. Grazie! Grazie! Grazie! Ci vediamo in palestra!!! Ciao Alex

 
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